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La casa di Arad era in apparenza abbastanza modesta; era stata acquistata nei primi anni della sistemazione in Transilvania dei De Niro ed era più capiente, che non elegantse; l’ attuale proprietario era stato attirato dal grande giardino e dall’ orto enorme che la circondavano. Qui aveva la possibilità di allestire le botteghe e i magazzini dei materiali, l’ essicatoio del legname e le dipendenze assolutamente occorrenti ad un costruttore edile della portata raggiunta dalla ditta „De Niro”.
Nel 1885, la casa si componeva di molti corpi, la parte che si affacciava sulla via serviva da dimora ai numerosi membri della famiglia.
All’ angolo che dava sulla via c’ erano due stanze capienti e oscure, con finestre piccole e strette, con le porte verniciate di marrone; una serviva da camera da letto per Aniute e Giovanni che vi avevano concepito alcuni dei figli piu piccoli, mentre i primi bambini Aniute li aveva partoriti in Italia, secondo la tradizione, in virtù della quale acquisivano la cittadinanza italiana. La stanza da letto era ammobiliata nell’ orrendo stile denominato „Alt Deutsch”, che corrispondeva al gusto borghese dell’ epoca, i letti avevano le testate molto alte, scolpite, gli armadi erano capienti e scuri, le sedie avevano lo schienale dritto e stretto, il tavolino da toeletta con la specchiera era sistemato di modo che non si potesse scorgere nettamente chi vi si rispecchiava. Alle finestre c’ erano tendaggi lunghi, pesanti, ampi, color tabacco orientale, che inquadravano le tende sottili, ricamate, che filtravano la poca luce penetrata appena nel vano. Il piede affondava in un tappeto alto, color vino biondo, leggermente logorato, essendo stato comperato molti anni prima, con intorno una ghirlanda di fiori e foglie bruno-rossicce con sfumature dorate. Alle pareti erano appese due cromolitografie banali, conservate per tradizione, raffiguranti Gesù e la Vergine Maria.
Nell’ altra stanza che dava sulla via dormivano i figli maschi più grandi, Giovanni Secondo – com’ era chiamato per distinguerlo dal padre, che era Giovanni Primo – nato nel 1868, Guglielmo – che tutti chiamavano Willi – nato nel 1870, Ercole, nato nel 1874, e Tancredi, venuto al mondo nel 1875. In camera c’ erano tre letti angusti e un divano, una tavola circondata da quattro sedie impagliate, un armadio grande e brutto, uno scaffale per i libri; un tappeto romeno a colori vivaci, che rendeva più gaio questo vano banale e poco luminoso.
Dalla stanza da letto principale si entrava in una sala stretta, chiamata la „stanza degli specchi”, le pareti essendo occupate da armadi a tre ante, la mediana ricoperta da uno specchio ampio, del miglior cristallo italiano, portato con difficoltà ingenti da Venezia. Aniute De Niro si reputava orgogliosa di questi specchi, anche se nessuno oltre ai famigliari li vedevano; il vano era del resto troppo stretta per poter essere diversamente utilizzato. In questi armadi si custodivano gli abiti buoni della famiglia, la biancheria e le tovaglie riccamente ricamate e con merletti, le tende di pizzo e i tovaglioli „Richelieu”. Tutta questa roba era raramente adoperata, ma faceva parte del corredo di Aniute e valeva molti soldi. In uno degli armadi era custodito pure il vestito da sposa di Aniute, lavorato nel monastero italiano in cui era stata educata. La camicetta era adornata con sette tipi di pizzo vero e il corpetto di broccato bianco aveva i bottoni d’ argento dorato con una lacrima di cristallo di Murano al centro. La gonna ampia, di seta pesante, aveva assunto col passar degli anni una tinta giallognola come di avorio antico. Più tardi, dopo la caduta in disuso dei bustini, nessuna giovane della famiglia era stata in grado di indossarla. Soltanto nel 1910, una nipote dal „vitino di vespa” riuscì a infilarvisi, busciando l’ invidia di tutte le giovinette.
Dalla la camera degli specchi si passava in una stanza larga e luminosa, un soggiorno in cui le donne e i bimbi trascorrevano diverse ore, soprattutto d’ inverno. Qui facevano i compiti, si cuciva, si stiravano montagne di panni sul tavolone del centro, ben illuminato da una lampada con specchio, che dava una calda brillantezza agli oggetti.
Nella stanza si trovavano pure due poltrone larghe e comode, una per Aniute nelle ore di rila,sso, quando ricamava, rattoppava i vestiti dei figli; l’ altra riservata a il signor De Niro e nessun’ altro della famiglia avrebbe osato sedervisi, neanche in assenza del padrone di casa.
Il contratto fra Giovanni De Niro e Aniute Berlusconi fu rispettato da ambo le parti: Aniute portò la dote promessa e questo permise a Giovanni di cominciare i lavori. Inoltre ella partorì numerosi figli, tanti maschi per soddisfare il suo orgoglio d’ italiano. Tra i primi maschi, era arrivataa una bambina, Agata, che fu trattenuta dai nonni, presso i quali completava la sua educazione nello stesso convento in cui lo era stata formata sua madre. I maschi crescevano vigorosi, forti e sani, battaglieri e pertinaci, cosicche in un’ epoca nella quale era altissima la mortalità infantile, nessun bimbo era mai spirato in casa De Niro.
Era pulita e fredda come una chiesa la casa De Niro; nonostante fosse piena di pargoletti, vi regnava un ordine imposto dalla volontà ferrea del padre. Le regole di convivenza dovevano essere strettamente osservate ed erano guai per colui che tralasciava qualcosa. Nessuno ardiva sedersi a tavola senza essersi accuratamente lavate le mani, nessuno andava a letto se non dopo una sosta nella saletta da bagno, dove in un largo bacile – d’ inverno, pieno di acqua tiepida – si lavavano i piedi; il pavimento di legno splendeva per essere stato lucidato insistentemente e tutti calzavano delle babbucce, che non solo risparmiavano il pavimento, ma addirittura lo ripulivano dalla polvere.
La farmacia della casa conteneva tutte le piante occorrenti per guarire le malattie consuete: menta, camomilla, tiglio e soprattutto foglie di salvia pianta miracolosa considerata dai Romani una panacea – dal suo nome essendo derivata la parola „salve”, con la quale i padroni del mondo si salutavano – mentre per rafreddori e dolori reumatici si usava il decotto di scorza di salice, amarognolo ed efficacissimo.
Natura placida e dall’ intelligenza mediocre, con la salute gracile, in seguito alle tante gravidanze e ai parti, Aniute viveva all’ ombra di suo marito, ne allegra, ne triste, preoccupata di cose minute, allarmata solo quando uno dei figli era malato, aveva la febbre o mal di ventre. Le sue mani alacri non prendevano riposo giammai; era esperta e i suoi ricami non avevano uguale. Sposata giovanissima con questo uomo caparbio, non era stata capace di raggiungere con lui una vera confidenza, le facevano paura i suoi silenzi, nonostante lui le rimproverasse, di rado, la lentezza e la bontà eccessiva nei riguardi degli altri.
Giovanni non la rendeva partecipe delle sue ansie e dei ai progetti, ma era un marito corretto, anche se alquanto aspro. Lavorando incessantemente per ottenere e, poi, consolidare i suoi averi, egli inseguiva il desiderio di diventare un uomo importante.
Nella città di Arad si era costruito moltissimo in quegli anni, il centro era stato sistemato e tanti edifici recavano l’ impronta della ditta „De Niro”. A differenze della maggioranza degli Italiani, Giovanni non era loquace, espansivo, ruminava a lungo le idee, per la cui realizzazione s’ ingegnava con tenacia; non amava le chiacchierate e poco apprezzava gli scherzi, parlava con precisione, senza la miriade di superlativi dell’ Italiano comune.
I rapporti fra i coniugi erano garbati ma freddi, e la tenerezza era limitata alle intimità della stanza da letto; se Aniute aveva creduto di trovare un amore pieno di calore nella persona di suo marito, si era sbagliata di grosso; lui faceva il suo dovere coniugale e per il resto viveva nel suo universo, nel quale non avevano accesso le femmine.
Col passar degli anni, erano divenuti benestanti, in consonanza alle promesse iniziali, ragione per cui non ella aveva nulla di che laguarti.
Di tanto in tanto, il signor De Niro s’ infuriava a causa dell’ indole troppo mansueto della consorte e nuvole di tempesta ricoprivano il cielo della famiglia; ma lui aveva, a un certo punto, capito che non c’ era niente da fare e così prese in mano le redini della casa e la organizzò secondo gli stessi principi che usava nella conduzione dei suoi cantieri. Dall’ Italia fu fatta venire zia Paola, per dare aiuto ad Aniute. Due sguattere e diversi braccianti lavoravano alla manutenzione della casa, del cortile, dell’ enorme giardino, dell’ orto e delle terre, della vigna, di tutte le numerose dipendenze della masseria. La dispensa era chiusa a chiave e le chiavi le aveva il padrone; la sera, gli si presentava l’ elenco dell’ occorrente per l’ indomani ed erano guai se le due donne si dimenticavano di qualcosa. Le porzioni erano calcolate con larghezza e, allo stesso tempo, con esattezza.
Coloro che subivano di più sulla propria pelle il rigore di Giovanni erano i figli, poiceè tenere a bada i puledri pieni di temperamento e di salute non era cosa da poco. Se erano troppo rumorosi a cena, andavano a letto affamati e la povera Aniute s’ insinuava furtivamente e tremante dalla paura a portare qualcosa da mangiare al colpevole. Per falli più grossi c’ era la frusta alla portata di mano.
Uno degli aneddoti raccontati con dovizia di particolari in famiglia, diversi decenni dopo, riguardava un fattaccio compiuto da Giovanni Secondo e da Guglielmo, che avevano rubato alcune zucche dall’ orto di un vicino di casa e, imprudentemente, avevano vantato la loro impresa a cena, orgogliosi per aver infranto la vigilanza del padrone del raccolto. Più tardi, quando la loro ammirazione per il proprio padre la mostravano apertamente, favellavano sorridenti.
De Niro aveva rivolto ai due eroi uno sguardo terribile. Chiese, però, calmo:
– Quante zucche avete rubato?
– Quattro! rispose impaurito Giovanni.
– Dove sono?
– Nella stalla, sospirò il reo.
De Niro si terse i folti baffi, si alzò dal suo seggio a capo tavola e disse:
– Riportatele.
Il signor De Niro si avviò verso il cortile del vicino, seguito dai due imputati, che avevano in braccio le zucche, entrambi con la faccia devastata dal timore, ben prevedendo cosa sarebbe successo. Bussò alla porta e disse all’ uomo che i ragazzi avevano rubato le zucche. Colui ne rise. Quale bambino non aveva rubato delle zucche per trasformarle in „fanali” con cui spaventare i passanti? Ma il signor De Niro li obbligò a restituire la refurtiva e a chiedere scusa.
In casa, pagarono il conto. Ciascun ragazzo ricevette due frustate sulla schiena, non tanto dolorose, per quanto umilianti.
Più tardi, Giovanni Secondo che piagnucolava nell’ altro capo tavola, al posto suo, bisbigliò a Willi:
– Meno male che non abbiamo rubato delle ciliegie; sarebbe stato capace di regalarci una frustata per ogni ciliegia!
– Stupido, le ciliegie le avremmo mangiate e nessuno avrebbe saputo nulla, replicò il fratello più piccolo.
Aniute soffriva quando assisteva a tali scene, ma non poteva interferire ed era meglio così, perche con la sua bontà sconfinata avrebbe rovinato i figli.
Tutte le stanze di cui abbiamo già parlato davano su un corridoio lungo, largo e luminoso, con la parete a Sud interamente a vetrate nella metà superiore. Fungeva da sala da pranzo, occupata com’ era in tutta la sua lunghezza da un tavolone al quale poteva sedersi comodamente più di una ventina di persone, e, infatti, spesso e volentieri tanti erano i commensali. Sulla parete dirimpetto alle vetrate si allineavano le credenze e gli scaffali carichi di stoviglie.
A capo tavola c’ era l’ unico seggiolone, destinato al padrone i casa; gli altri avevano sedie con schienale, se erano persone mature, oppure sedie semplici, se erano bambini o famigli. Alla destra del padrone, stava seduta Aniute, poi zia Paola e, più tardi, dopo il rientro dall’ Italia, la figlia grande, Agata, poi le mogli dei capomastri dei cantieri e le serve, che si alzavano spesso per portare le pietanze. Alla sinistra del padrone, siedevano i capomastri, i figli maschi, qualche operaio specializzato di fiducia – a seconda dell’ età – poi i domestici. L’ atmosfera era patriarcale, fondata su rapporti stretti fra padroni e dipendenti, rapporti che sero a rimanere immutati molti anni dopo che il signor De Niro era diventato un uomo d’ affari influente e rinomato.S’ incontravano in questa formazione la domenica e, ogni tanto, di sera; tutti gli altri giorni, gli uomini, che preferivano riposare un’ ora all’ ombra, con la testa appoggiata su un mattone, risparmiandosi la fatica di rincasare, mangiavano sul posto di lavoro. La giornata lavorativa era misurata dal passaggio del sole. Cominciava all’ alba e si concludeva al tramonto: di primavera e in estate poteva durare fino a quindici ore, ma, con l’ arrivo dell’ autunno, si abbreviava in corrispondenza della luce diurna, senza che il salario diminuisse. Era il sistema che funzionava sin dai tempi dei Romani, per i quali un’ ora poteva contare da quarantacinque a novanta minuti.
Fragment din romanul La cronaca della famiglia De Niro, Coleta De Sabate, Editura Excelsior Art, 2007