Editura Excelsior Art la cea de a 27-a aniversare


Primul deceniu (1990 – 2000) de activitate editorială a fost, poate, perioada cea mai creativă pentru autori, pentru editori, iar cititorii luau cu asalt librăriile. Tirajele în care erau publicate cărțile depășeau cu ușurință pragul de 10.000 de exemplare.
De-a lungul anilor (1990 –2017) în luna mai a devenit luna în care se desfășoară Zilele Editurii Excelsior Art, prilej de a ne întâlni (autori și editor)  cu cititorii, cu prietenii noștri.
Pentru noi, cititorul nu este un simplu „receptor” comunicațional, transmis sub formă de carte.
El, cititorul, este feed-back-ul care valorifică valabilitatea mesajului și motivează circulația datelor.
Numai dacă trăim împreună, dacă ne pasă unora de alții, dacă vrem să ne înțelegem, ne putem da seama de puterea miraculoasă a cărții.

25 mai 2017 vă invităm la lansarea primei casete de autor Clanul De Niro, roman document, roman istoric, în care sunt incluse cele 6 romane semnate de Coleta De Sabata.
Ampla și valoroasa lucrare Clanul De Niro (casetă de autor) a apărut cu sprijinul Asociației Italienilor din Româna – Ro. As. It.
Coleta De Sabata a publicat sub egida Editurii Excelsior Art și lucrări de știință, eseuri, note de călătorie, romane polițiste.
Relația între scriitor și editor a fost și este una deosebită.

Despre relația scriitor-editor

OAMENI ȘI CĂRȚI
(…)
Cartea nu se naște nici din dragoste și nici din interes, nici din imaginație și nici din rațiune, nici din talent și nici din robire, ea se naște din nevoia de a comunica și sporește la infinit nevoia de comunicare.
Autorul, editorul, bibliotecarul și cititorul participă, în momente și cu atribuții diferite, la ceea ce ne-am obișnuit să numim „drumul cărții”.
La început autorul și editorul își împart responsabilitatea ivirii cărții, fiind răspunzători  de soarta ei, așa cum – într-un alt context – izvorul poartă în forța propriei țâșniri întreaga răspundere pentru suflul epic al fluviului.
În diala autor – editor, cel dintâi are privilegiul de a fi mai vizibil prin semnătura de partinitate – și mai longeviv – prin șansa mai mare de a   supraviețuii în memoria colectivă.  (…)
Editorul este reprezentat doar prin sigla instituției – veritabil atelier de creație – în care construiește sub inconvenientul anonimatului cartea într-o formă  stare în care să deschidă ochii și sufletul cititorilor, astfel încât acestora să li se releve o viziune, o trăire efemeră, un strigăt la fel de răscolitor ca un cântec de lebădă.
Editorul este – dacă ar fi să actualizăm – o interfață într-un mecanism în care cartea a ajuns doar intrigă pentru un dialog (științific sau afectiv) între scriitor și publicul larg. (…)

(fragment din articolul „Oameni și cărți” semnat de conf. univ. dr. Mirela-Ioana Borchin – apărut în Info Carte – Publicație de informare culturală și literală – editată de Editura Excelsior Art.)

 

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La cronaca della famiglia De Niro / 3 /


la cronacca della

La cena era semplice e sostanziosa, cominciava con la minestra di verdure, di cui ognuno mangiava una scodella abbondante; polenta aurea, tagliata con lo spago in fette grosse, fumanti, su taglieri di legno; a ognuno spettava una buona fetta di pecorino comperato a Fiume, Udine o Trieste; di tanto in tanto, a cena si serviva anche un uovo sodo. La carne si vedeva di rado nei piatti, invece non mancavano mai le Rosseciotole piene d’ insalata di cicoria, amarognola, i cui semi ogni friulano portava con sè quando emigrava. Il vino rosso faceva parte della razione giornaliera dei maschi, a cominciare dall’ età di dodici anni, mentre le donne non ne bevevano punto. D’ estate e d’ autunno, sul tavolo c’ era molta frutta dello sterminato giardino ben mantenuto dei De Niro.
Nel periodo di massimo lavoro, Giovanni De Niro si svegliava alle tre e mezza; Aniute si destava e gli preparava una tisame, poi tornava a letto, perche spesso faceva freddo a quell’ ora e le domestiche si alzavano solamente alle quattro.
La giornata cominciava con l’ ispezione a tutti i cantieri della città, De Niro essendo un perfetto organizzatore, qualità che gli aveva permesso di ottenere alti rendimenti senza che i lavoratori si lagnassero per lo sforzo loro. I mattoni, il mortaio, la calce, la sabbia, la pietra, il legname, il calcestruzzo, tutto il materiale si trovava alla portata di mano degli operai, sempre, nella quantità occorrente. Mai più, nella storia dei cantieri De Niro, gli operai avevano perduto tempo per mancanza di qualcosa. Ciascun muratore aveva uno o due apprendisti –questo dipendeva dalla bravura sua – che gli passavano ciò che serviva, senza che lui facesse movimenti inutili, che comportassero stanchezza sterile. Di questo tirocinio di lavoro secondario avevano avuto modo di sperimentare la pesantezza tutti i maschi De Niro, a prescindere dal fatto che erano liceali o, più tardi, studenti universitari. In estate guadagnavano i soldi necessari per le tasse lavorando sodo sui cantieri, imparando tutti i mestieri, e la paga era proporzionale al lavoro svolto.
Uno dei problemi grossi dei cantieri era legato al trasporto dei materiali da parte di carrettieri che adoperavano i propri mezzi. De Niro mise a punto un sistema semplice ed efficace di registrazione, senza ricovere a scritture. Ciascun dirigente di cantiere, cioè un capomastro di assoluta fiducia e ben pagato, aveva un aggeggio in legno, che loro chiamavano „ravage”, composto di due parti che recastraavano perfettament,: una per sè, l’ altra per il trasportatore. Dopo ogni corsa, il capomastro intagliava, in presenza del dipendente in causa, una linea che interessava entrambe le parti dello strumento e, al momento del pagamento, ciascuno presentava la sua „registrazione” le confrontavano con altra; non potevano subentrare discussioni o scorrettezze.
*
– Desidero che tu costruisca qui dei depositi, sui due lati del cortile, disse il signor De Niro, in una giorna di autunno, al capomastro che si occupava del legname.
– Depositi semplici?
– No. Sul lato settentrionale, facciamo dei depositi semplici, per la stagionatura del legname. Invece, sul lato verso Levante, quello corto, facciamo depositi chiusi, per ultimare l’ essicazione.
– Dovremo installare una stufa ad ogni capo, valutò l’ uomo.
– Fai come ti pare. Costerà molto di meno preparare il legname, che non comprarlo già essicato.
– Copro tutta la lunghezza? riprese il capomastro.
– Sì.
– E con la bottega per confezionare le impalcature come si fa?
– La costruiamo, si capisce. Se ne occuperanno due operai italiani specializzati.
La parola d’ ordine della ditta era „la qualità prima di tutto”. Proprio per questo De Niro guadagnava, in certi casi, poco o niente, ma a lungo termine il metodo aveva consolidato la buona fama, alla quale non avrebbe rinunciato per niente al mondo, adesso che tutto andava a gonfie vele.
*
Sabato sera, l’ attività si fermava alle sei. Gli operai rincasavano, una parte era del posto, altri abitavano in affitto con la moglie italiana, qualcunoanche con i figli.. In casa li aspettava la caldaia piena d’ acqua tiepida, per togliere tutta la polvere insinuatasi sotto la pelle e nei capelli folti e scuri, che sembravano incipriati.
In casa De Niro, la domenica, tutti si svegliavano alle sei del mattino, perche si potesse partecipare alla messa delle sette.
– Facciamo dormire ancora i figli, proponeva Aniute di tanto in tanto nel tentativo dic onvincere il coniuge.
– No. Andare a messa è un dovere. Che razza di persone affidabili diventerebbero se non fossero in grado di fare questo minimo sacrificio?
La dolce Aniute, nonostante la sua religiosità – era stata educata in convento – soffriva nel destare i bambini così presto di domenica, ma non osava trasgredire le regole fissate dal marito. Gli altri giorni svegliava i figli alle cinque, di modo che ripassassero i compiti scolastici. Mica si scherzava con gli ordini stabiliti dal vecchio.
I bambini brontolavano, ma si alzavano infreddoliti; subito dopo, però, cominciavano a giocherellare. In chiesa, dopo la messa, a ognuno spettava un tarallo caldo e salato, che li consolava del tutto.
Questa’ educazione rigorosa ebbe effetti differenti sui figli della famiglia, che assomigliavano ben poco tra loro. Taluni acquisirono un’ indole aspro, duro, altri diventarono deboli e sottomessi, qualcuno dei discendenti di Giovanni Primo, per spirito di fronda, divenne l’ opposto del padre, odiandolo e ammirandolo nello stesso tempo. Senza distinzione, però, furono tutti estremamente rispettosi con la mamma, come per ricompensarla del clima rude che regnava in casa per voleer del padrone. Fra tutti, Tancredi, bello e delicato, era il piu tenero,semigliava ad Aniute, confessava perfino le bazzecole, e cresceva nello stesso spirito religioso della madre.
In chiesa, il signor De Niro pregava con lo stesso impegno con cui faceva ogni cosa: aveva un concetto semplicistico sui rapporti con la Divinità, ma osservava con precisione le regole insegnatele sin dall’ infanzia. Vicino a lui, la mite Aniute pregava con profonda devozione. Sempre vestita in colori scuri, con capi di buona qualità, ma privi di eleganza, senza gioielli, pallida e magra, mormorava sommessamente le preghiere, avvertendo il senso di pace che s’ impadroniva di lei. Ogni tanto, il pensiero tornava agli anni della giovinezza, e si chiedeva, mentre l’ organo sprigionava suoni puri, che cosa mai sognava da quei tempi. Educata nel rispetto dei valori della famiglia, riteneva di aver compiuto bene il suo dovere e di essere stata ripagata. Aveva una bella famiglia numerosa, i figli erano sani, il marito serio e non bevitore, a differenza di certi Italiani che lavorarano ai cantieri; la gente la teneva in alta considerazione, oltre, erano diventati ricchi come nemmeno aveva ardivo sperare all’ inizio. Ma il suo sposo a che cosa stava pensando? La vedeva, o per lui era solamente un mobile che si muoveva per casa? Lui non la faceva partecipe ai nessuna delle sue preoccupazioni e, a dire la verità, nemmeno sapeva con esattezza quant’ erano ricchi. Ella era quasi sempre incinta o con un poppante in braccio, c’ erano le malattie infantili, poi le notti di veglia… non avevano neanche il tempo di parlare loro due, anche perche egli era così chiuso in sè, taciturno. Ricordava la casa dei genitori, in cui si viveva tanto diversamente, perfino lei era al corrente dei problemi della famiglia; veniva gente a trovarli, si discorreva, facevano buona musica. Qui tutto si limitava al giro ristretto e semplice della gente dei cantieri.
Era nuovamente in gravidanza e, nonostante la presenza degli altri figli, gioiva al pensiero della prossima partenza per l’ Italia per il parto, come aveva fatto con quasi tutti gli altri pargoli. Sua madre l’ avrebbe accolta volentieri e l’avrebbe coccolata. Sorrise lievemente e i tratti suoi si addolcirono.
„Ite, missa est!”
La voce del prete la distolse dal sogno ad occhi aperti.
– Ho chiamato tutti gli italiani per questo pomeriggio, l’ informò De Niro sul sagrato della chiesa.
– Farò i preparativi dovuti, sussurrò lei dimessamente.
*
Nel cortile di casa era convenuta una cinquantina di persone, per lo più maschi, solo qua e là balenava una veste vivacemente colorata di ragazza o giovane donna. Un buon odore aleggiava sulla comitiva; dal cielo pioveva una luce festosa.
Antonio, brioso, aitante e con lo sguardo lucente, stava in mezzo al cortile sotto la pergola di vite e suonava la fisarmonica.
Le fanciulle ballavano una furlana, cioè una sorta di polca, volteggiando velocemente guidate dai giovanotti; le sottane gli sollevavano ritmicamente e macchie di sudore ingiallivano i bustini ricamati. I corpi, ben lavati e poi strofinati con fiori di basilico emanavano un buon profumo. La polvere si alzava come una foschia trasparente e, tra i pampini, la luce filtrava calda e colorita, disegnando arabeschi dorati sui luoghi meno movimentati .
In un angolo piu appartato, alcuni giovani parlottavano.
– S’ avvicina l’ autunno, tra poco rientrerete, disse uno del posto.
– Sì, siamo come le gru, rise un Italiano alto e snello. Solo che noi andiamoverso nord-ovest, d’ autunno, non verso mezzogiorno.
L’ Italiano aveva gli occhi color delle more, brillanti, a mandorla, con le ciglia lunghe. Lo sguardo tradiva il desiderio alla vista del seno tenero delle ragazze che danzavano in mezzo al cortile. Bramava l’ abbraccio di una donna, ma non osava avvicinare nessuna delle giovinette, egli era sposato, mentre queste erano figlie o mogli dei compagni di lavoro e non stava bene intrecciare una relazione con qualcuna di esse. Bevve in un sorso un bicchiere di vino. I suoi occhi incrociarono uno sguardo che decifrò in un istante. Non sapeva chi fosse la giovane. Forse una vedova che ingannava la propria solitudine. Cominciò a ballare pure lui, pensando: „non posso mica attendere fino all’ inverno, comunque!”. La ragazza o la donna una carne bensoda e le forme avvenenti. Le sfiorò, come per caso, i seni, e percepì che si era infiammata. Rise. Rise anche lei, e saltellò più vivacemente. Un calore piacevole percorse tutta la persona di lui. La strinse per la vita e scese sull’ anca, dandole un leggero pizzicotto. Ella saltava alacremente al ritmo della musica come se non avesse recepito nulla e così l’ uomo le cinse le spalle attirandola a se, bisbigliando „vieni nella valle che ti faccio vedere qualcosa”. Il viso della donna era arrossato e lievemente perlato di sudore. Lo desiderava pure lei e tremava dal piacere che la elettrizzava. Lui insinuò una mano sotto l’ ascella e le cinse il seno tondo. Ella gemette piano. Lasciarono il gruppo di ballerini e si diressero verso il fiume che scorreva in fondo al giardino. Vecchi salici piangenti chinavano i rami flessuosi fino a toccare le onde scarse e pigre in quell’ inizio di autunno. La baciò con foga ed ella si avvinse a lui, sciolta nel desiderio. L’ appoggiò ad un tronco robusto, e continuo a palpeggiarla, impazzito del desiderio. Con un movimento frettoloso ella sbottonò la camicetta offrendo alla bocca di lui i seni bianchi e turgidi. La mors,e ed ella rise. Appena la toccò, lui esplose dal troppo desiderio.
– Vieni! disse lei, e si adagiò supina in una cavità della sponda che la nascondeva agli sguardi eventuali di un passante. Si amarono di nuovo, a lungo e con godimento. La donna sapeva ciò che voleva e come ottenere la soddisfazione agognata.
Stanco, ma contento, l’uomo si distese sull’ erba della riva.
– Chi sei? chiese.
– Lascia stare, tanto non importa, rise ella.
– Sei sposata?
– Non sono del posto, mi trovo presso parenti chiarì lei.
– Come ti chiami?
– Io ho nome di fiore, chi mi ama certo muore, scherzò la giovane. Dai, vattene, tra pocco arrivo anch’ io dopo.
L’Italiano tornò nel cortile dei De Niro e il suo sguardo suo incontrò il volto pallido e placido di Aniute. Senza volerlo, pensò: „a letto fredda dovrà esser, come mai ha fatto tanti figli?”
Aniute stava all’ ombra e sentiva le chiacchiere delle donne. La sua faccia era trasparente e intorno agli occhi le occhiaie blustre tessevano un’ ombra di mestizia. Aveva mal di schiena, era pervasa da una neghittosità inconsueta. Mirando i danzatori le venne il dubbio: „sono mai stata come loro?” Aveva l’ impressione di essere centenaria.
– Vado in camera a leggere, disse il marito, passandole vicino. Amava riempire così i momenti di quiete, i libri fortificavano il suo spirito. La stragrande maggioranza dei libri proveniva dal vescovado. Ultimamente aveva cominciato a comprarne e ne andava fiero. Come tanti autodidatti, era affezionato ai libri con vera devozione, perchè gli aprivano spazi che, prima, non aveva mai creduto di scoprire. Era molto cambiato negli ultimi anni. Il prolungato contatto col ceto ecclesiale alto aveva affinato i suoi modi, aveva modellato la sua maniera di ragionare con sottigliezza. Aveva imparato ad ascoltare pazientemente, senza interrompere l’ interlocutore, egli stesso parlava poco e saggiamente. I famigliari non conoscevano questo lato della sua indole e si sarebbero stupiti se qualcuno avresse detto di aver avuto una conversazione „colta” col signor De Niro. Per quanto fosse duro nei cantieri, riusciva abile nel combinare gli affari.
Con Aniute non discorreva per una questione di principio, le donne non avevano un ruolo importante nella sua vita. La moglie doveva essere una brava massaia, capace di allevare la nidiata fino al momento in cui i figli diventavano idonei al lavora.

fragment din romanul Clanul de Niro, ediție în limba italiană, Coleta de Sabata, Editura Excelsior Art, 2007

pentru varianta în limba română: http://www.excelsiorart.ro/carte/clanul-de-niro.html

LA CASA DEI VECCHI


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(…)

La casa di Arad era in apparenza abbastanza modesta; era stata acquistata nei primi anni della sistemazione in Transilvania dei De Niro ed era più capiente, che non elegantse; l’ attuale proprietario era stato attirato dal grande giardino e dall’ orto enorme che la circondavano. Qui aveva la possibilità di allestire le botteghe e i magazzini dei materiali, l’ essicatoio del legname e le dipendenze assolutamente occorrenti ad un costruttore edile della portata raggiunta dalla ditta „De Niro”.
Nel 1885, la casa si componeva di molti corpi, la parte che si affacciava sulla via serviva da dimora ai numerosi membri della famiglia.
All’ angolo che dava sulla via c’ erano due stanze capienti e oscure, con finestre piccole e strette, con le porte verniciate di marrone; una serviva da camera da letto per Aniute e Giovanni che vi avevano concepito alcuni dei figli piu piccoli, mentre i primi bambini Aniute li aveva partoriti in Italia, secondo la tradizione, in virtù della quale acquisivano la cittadinanza italiana. La stanza da letto era ammobiliata nell’ orrendo stile denominato „Alt Deutsch”, che corrispondeva al gusto borghese dell’ epoca, i letti avevano le testate molto alte, scolpite, gli armadi erano capienti e scuri, le sedie avevano lo schienale dritto e stretto, il tavolino da toeletta con la specchiera era sistemato di modo che non si potesse scorgere nettamente chi vi si rispecchiava. Alle finestre c’ erano tendaggi lunghi, pesanti, ampi, color tabacco orientale, che inquadravano le tende sottili, ricamate, che filtravano la poca luce penetrata appena nel vano. Il piede affondava in un tappeto alto, color vino biondo, leggermente logorato, essendo stato comperato molti anni prima, con intorno una ghirlanda di fiori e foglie bruno-rossicce con sfumature dorate. Alle pareti erano appese due cromolitografie banali, conservate per tradizione, raffiguranti Gesù e la Vergine Maria.
Nell’ altra stanza che dava sulla via dormivano i figli maschi più grandi, Giovanni Secondo – com’ era chiamato per distinguerlo dal padre, che era Giovanni Primo – nato nel 1868, Guglielmo – che tutti chiamavano Willi – nato nel 1870, Ercole, nato nel 1874, e Tancredi, venuto al mondo nel 1875. In camera c’ erano tre letti angusti e un divano, una tavola circondata da quattro sedie impagliate, un armadio grande e brutto, uno scaffale per i libri; un tappeto romeno a colori vivaci, che rendeva più gaio questo vano banale e poco luminoso.
Dalla stanza da letto principale si entrava in una sala stretta, chiamata la „stanza degli specchi”, le pareti essendo occupate da armadi a tre ante, la mediana ricoperta da uno specchio ampio, del miglior cristallo italiano, portato con difficoltà ingenti da Venezia. Aniute De Niro si reputava orgogliosa di questi specchi, anche se nessuno oltre ai famigliari li vedevano; il vano era del resto troppo stretta per poter essere diversamente utilizzato. In questi armadi si custodivano gli abiti buoni della famiglia, la biancheria e le tovaglie riccamente ricamate e con merletti, le tende di pizzo e i tovaglioli „Richelieu”. Tutta questa roba era raramente adoperata, ma faceva parte del corredo di Aniute e valeva molti soldi. In uno degli armadi era custodito pure il vestito da sposa di Aniute, lavorato nel monastero italiano in cui era stata educata. La camicetta era adornata con sette tipi di pizzo vero e il corpetto di broccato bianco aveva i bottoni d’ argento dorato con una lacrima di cristallo di Murano al centro. La gonna ampia, di seta pesante, aveva assunto col passar degli anni una tinta giallognola come di avorio antico. Più tardi, dopo la caduta in disuso dei bustini, nessuna giovane della famiglia era stata in grado di indossarla. Soltanto nel 1910, una nipote dal „vitino di vespa” riuscì a infilarvisi, busciando l’ invidia di tutte le giovinette.
Dalla la camera degli specchi si passava in una stanza larga e luminosa, un soggiorno in cui le donne e i bimbi trascorrevano diverse ore, soprattutto d’ inverno. Qui facevano i compiti, si cuciva, si stiravano montagne di panni sul tavolone del centro, ben illuminato da una lampada con specchio, che dava una calda brillantezza agli oggetti.
Nella stanza si trovavano pure due poltrone larghe e comode, una per Aniute nelle ore di rila,sso, quando ricamava, rattoppava i vestiti dei figli; l’ altra riservata a il signor De Niro e nessun’ altro della famiglia avrebbe osato sedervisi, neanche in assenza del padrone di casa.
Il contratto fra Giovanni De Niro e Aniute Berlusconi fu rispettato da ambo le parti: Aniute portò la dote promessa e questo permise a Giovanni di cominciare i lavori. Inoltre ella partorì numerosi figli, tanti maschi per soddisfare il suo orgoglio d’ italiano. Tra i primi maschi, era arrivataa una bambina, Agata, che fu trattenuta dai nonni, presso i quali completava la sua educazione nello stesso convento in cui lo era stata formata sua madre. I maschi crescevano vigorosi, forti e sani, battaglieri e pertinaci, cosicche in un’ epoca nella quale era altissima la mortalità infantile, nessun bimbo era mai spirato in casa De Niro.
Era pulita e fredda come una chiesa la casa De Niro; nonostante fosse piena di pargoletti, vi regnava un ordine imposto dalla volontà ferrea del padre. Le regole di convivenza dovevano essere strettamente osservate ed erano guai per colui che tralasciava qualcosa. Nessuno ardiva sedersi a tavola senza essersi accuratamente lavate le mani, nessuno andava a letto se non dopo una sosta nella saletta da bagno, dove in un largo bacile – d’ inverno, pieno di acqua tiepida – si lavavano i piedi; il pavimento di legno splendeva per essere stato lucidato insistentemente e tutti calzavano delle babbucce, che non solo risparmiavano il pavimento, ma addirittura lo ripulivano dalla polvere.
La farmacia della casa conteneva tutte le piante occorrenti per guarire le malattie consuete: menta, camomilla, tiglio e soprattutto foglie di salvia pianta miracolosa considerata dai Romani una panacea – dal suo nome essendo derivata la parola „salve”, con la quale i padroni del mondo si salutavano – mentre per rafreddori e dolori reumatici si usava il decotto di scorza di salice, amarognolo ed efficacissimo.
Natura placida e dall’ intelligenza mediocre, con la salute gracile, in seguito alle tante gravidanze e ai parti, Aniute viveva all’ ombra di suo marito, ne allegra, ne triste, preoccupata di cose minute, allarmata solo quando uno dei figli era malato, aveva la febbre o mal di ventre. Le sue mani alacri non prendevano riposo giammai; era esperta e i suoi ricami non avevano uguale. Sposata giovanissima con questo uomo caparbio, non era stata capace di raggiungere con lui una vera confidenza, le facevano paura i suoi silenzi, nonostante lui le rimproverasse, di rado, la lentezza e la bontà eccessiva nei riguardi degli altri.
Giovanni non la rendeva partecipe delle sue ansie e dei ai progetti, ma era un marito corretto, anche se alquanto aspro. Lavorando incessantemente per ottenere e, poi, consolidare i suoi averi, egli inseguiva il desiderio di diventare un uomo importante.
Nella città di Arad si era costruito moltissimo in quegli anni, il centro era stato sistemato e tanti edifici recavano l’ impronta della ditta „De Niro”. A differenze della maggioranza degli Italiani, Giovanni non era loquace, espansivo, ruminava a lungo le idee, per la cui realizzazione s’ ingegnava con tenacia; non amava le chiacchierate e poco apprezzava gli scherzi, parlava con precisione, senza la miriade di superlativi dell’ Italiano comune.
I rapporti fra i coniugi erano garbati ma freddi, e la tenerezza era limitata alle intimità della stanza da letto; se Aniute aveva creduto di trovare un amore pieno di calore nella persona di suo marito, si era sbagliata di grosso; lui faceva il suo dovere coniugale e per il resto viveva nel suo universo, nel quale non avevano accesso le femmine.
Col passar degli anni, erano divenuti benestanti, in consonanza alle promesse iniziali, ragione per cui non ella aveva nulla di che laguarti.
Di tanto in tanto, il signor De Niro s’ infuriava a causa dell’ indole troppo mansueto della consorte e nuvole di tempesta ricoprivano il cielo della famiglia; ma lui aveva, a un certo punto, capito che non c’ era niente da fare e così prese in mano le redini della casa e la organizzò secondo gli stessi principi che usava nella conduzione dei suoi cantieri. Dall’ Italia fu fatta venire zia Paola, per dare aiuto ad Aniute. Due sguattere e diversi braccianti lavoravano alla manutenzione della casa, del cortile, dell’ enorme giardino, dell’ orto e delle terre, della vigna, di tutte le numerose dipendenze della masseria. La dispensa era chiusa a chiave e le chiavi le aveva il padrone; la sera, gli si presentava l’ elenco dell’ occorrente per l’ indomani ed erano guai se le due donne si dimenticavano di qualcosa. Le porzioni erano calcolate con larghezza e, allo stesso tempo, con esattezza.
Coloro che subivano di più sulla propria pelle il rigore di Giovanni erano i figli, poiceè tenere a bada i puledri pieni di temperamento e di salute non era cosa da poco. Se erano troppo rumorosi a cena, andavano a letto affamati e la povera Aniute s’ insinuava furtivamente e tremante dalla paura a portare qualcosa da mangiare al colpevole. Per falli più grossi c’ era la frusta alla portata di mano.
Uno degli aneddoti raccontati con dovizia di particolari in famiglia, diversi decenni dopo, riguardava un fattaccio compiuto da Giovanni Secondo e da Guglielmo, che avevano rubato alcune zucche dall’ orto di un vicino di casa e, imprudentemente, avevano vantato la loro impresa a cena, orgogliosi per aver infranto la vigilanza del padrone del raccolto. Più tardi, quando la loro ammirazione per il proprio padre la mostravano apertamente, favellavano sorridenti.
De Niro aveva rivolto ai due eroi uno sguardo terribile. Chiese, però, calmo:
– Quante zucche avete rubato?
– Quattro! rispose impaurito Giovanni.
– Dove sono?
– Nella stalla, sospirò il reo.
De Niro si terse i folti baffi, si alzò dal suo seggio a capo tavola e disse:
– Riportatele.
Il signor De Niro si avviò verso il cortile del vicino, seguito dai due imputati, che avevano in braccio le zucche, entrambi con la faccia devastata dal timore, ben prevedendo cosa sarebbe successo. Bussò alla porta e disse all’ uomo che i ragazzi avevano rubato le zucche. Colui ne rise. Quale bambino non aveva rubato delle zucche per trasformarle in „fanali” con cui spaventare i passanti? Ma il signor De Niro li obbligò a restituire la refurtiva e a chiedere scusa.
In casa, pagarono il conto. Ciascun ragazzo ricevette due frustate sulla schiena, non tanto dolorose, per quanto umilianti.
Più tardi, Giovanni Secondo che piagnucolava nell’ altro capo tavola, al posto suo, bisbigliò a Willi:
– Meno male che non abbiamo rubato delle ciliegie; sarebbe stato capace di regalarci una frustata per ogni ciliegia!
– Stupido, le ciliegie le avremmo mangiate e nessuno avrebbe saputo nulla, replicò il fratello più piccolo.
Aniute soffriva quando assisteva a tali scene, ma non poteva interferire ed era meglio così, perche con la sua bontà sconfinata avrebbe rovinato i figli.
Tutte le stanze di cui abbiamo già parlato davano su un corridoio lungo, largo e luminoso, con la parete a Sud interamente a vetrate nella metà superiore. Fungeva da sala da pranzo, occupata com’ era in tutta la sua lunghezza da un tavolone al quale poteva sedersi comodamente più di una ventina di persone, e, infatti, spesso e volentieri tanti erano i commensali. Sulla parete dirimpetto alle vetrate si allineavano le credenze e gli scaffali carichi di stoviglie.
A capo tavola c’ era l’ unico seggiolone, destinato al padrone i casa; gli altri avevano sedie con schienale, se erano persone mature, oppure sedie semplici, se erano bambini o famigli. Alla destra del padrone, stava seduta Aniute, poi zia Paola e, più tardi, dopo il rientro dall’ Italia, la figlia grande, Agata, poi le mogli dei capomastri dei cantieri e le serve, che si alzavano spesso per portare le pietanze. Alla sinistra del padrone, siedevano i capomastri, i figli maschi, qualche operaio specializzato di fiducia – a seconda dell’ età – poi i domestici. L’ atmosfera era patriarcale, fondata su rapporti stretti fra padroni e dipendenti, rapporti che sero a rimanere immutati molti anni dopo che il signor De Niro era diventato un uomo d’ affari influente e rinomato.S’ incontravano in questa formazione la domenica e, ogni tanto, di sera; tutti gli altri giorni, gli uomini, che preferivano riposare un’ ora all’ ombra, con la testa appoggiata su un mattone, risparmiandosi la fatica di rincasare, mangiavano sul posto di lavoro. La giornata lavorativa era misurata dal passaggio del sole. Cominciava all’ alba e si concludeva al tramonto: di primavera e in estate poteva durare fino a quindici ore, ma, con l’ arrivo dell’ autunno, si abbreviava in corrispondenza della luce diurna, senza che il salario diminuisse. Era il sistema che funzionava sin dai tempi dei Romani, per i quali un’ ora poteva contare da quarantacinque a novanta minuti.

Fragment din romanul La cronaca della famiglia De Niro, Coleta De Sabate, Editura Excelsior Art, 2007

La cronaca della famiglia De Niro


la cronacca della

Capitolo primo
Il primo incontro fra il vescovo di Oradea Inochentie e il giovanissimo Giovanni De Niro avvenne nell’ estate del 1865.
Il vescovo viaggiava in carrozza su una strada in costruzione, quando sentì una melodia inconsueta per quella zona della Transilvania, melodia che gli ricordava gli anni trascorsi presso la De Propaganda Fide nel cuore della Città Eterna.
Coloro che cantavano ritmando così la fatica erano gli operai della strada ed il vescovo aveva fatto fermare la carrozza, chiamando perche l’avvicinasse uno degli uomini che sgobbavano sotto il solleone e nella polvere. Si era avvicinato il caposquadra, l’ allora giovanissimo Giovanni De Niro.
– Siete italiani?
– Sì, Eccellenza, siamo tecnici venuti dall’ Italia.
– Però sento che parli il romeno. Da quale parte dell’ Italia siete venuti fin qui?
– Dal Friuli, sotto le Alpi: siamo dei dintorni di San Daniele del Friuli; Vossignoria ha mai sentito parlare di quella regione? rispose il giovanotto sorridente.
– Sì. Conosco. „Et in Arcadia ego”, mormorò quasi fra sè il prelato. Ma dimmi, siete bravi a costruire pure altre cose oltre delle strade?
– Sappiamo fare di tutto, rispose con fierezza l’ uomo. Facciamo i costruttori din padre in figlio, abbiamo lavorato in Germania, in Svizzera e presso Vienna. Facciamo ponti, case, chiese, lavoriamo il marmo, la pietra, construiamo in mattoni. Non disdegniamo nessun lavoro onesto.
Il giovane parlava con un coraggio superiore all’ esperienza personale, ma entra nella consuetudine della gioventù credere che tutto sia possibile.
Il vescovo esaminò il gruppo di uomini: erano giovani, sani, forti, con occhi scuri e denti brillanti, incipriati dalla polvere e bagnati dal sudore.
– Io sono il vescovo Inochentie, di Oradea. Vieni la domenica prossima al Palazzo Vescovile, forse ci accorderemo per un lavoro da fare.
– Baciamo la destra, Vostra Signoria, verrò questa domenica, subito dopo la messa, non posso fare altrimenti.
La carrozza si allontanò facendo salire una nuvola fine di polvere, e gli uomini ripresero la loro fatica.
Con questo episodio semplice cominciò la collaborazione destinata a durare tutta la vita fra il vescovo Inochentie e il costruttore Giovanni De Niro.
La domenica successiva, dopo la messa, il giovane De Niro, vestito dignitosa- mente e con la faccia brillante per l’accurate rasatura, si presentò in vescovado.
Inochentie, uomo nel fior della maturità, sottile e raffinato come tutti i prelati formatisi a Roma, lo invitò a raccontargli la sua vita e, soprattutto, a narrare com’ era ginto in Transilvania.
– Dall’ età di undici anni ho lavorato con mio padre all’ estero; dalle nostre parti non si trova lavoro; la terra è poca, la coltivano le donne ed i vecchi; le nostre case sono in pietra, non ci sono riparazioni da fare se non ogni cent’ anni, se non di più. Andiamo in Germania, i Tedeschi sono ricchi, pagano bene e vogliono lavoro di qualità; edili migliori degli Italiani non ce ne sono al mondo, disse fiero ed ingenuo De Niro. D’ inverno andiamo un poco a scuola, quanto si può. Lavoriamo in squadra, non ci mescoliamo ad altri, rispondiamo per ciò che facciamo; già da piccoli, i genitori c’ insegnano a rispettare il lavoro.
Il vescovo l’ ascoltava attentamente, senza interromperlo; il giovane parlava un italiano infarcito da voci sconosciute a lui che aveva studiato in scuole superiori; il friulano era una lingua viva, colorite, ma difficilmente comprensibile, ed il giovanotto dimenticava spesso di dover adoperare solamentele le parole imparate a scuola.
– Due anni orsono ci hanno assunto per un lavoro grosso vicino a Fiume. Si tagliava una strada sulla costa a picco sul mare. Abbiamo lavorato tutta l’ estate, lavoro duro, ma i signori sono stati contenti di noi e ci hanno ben pagato. In autunno, prima di rientrare in Italia, è venuto un signore a prenotarci per la costruzione di questa strada. Voleva una squadra intera, cosa che ci piacque. Abbiamo stabilito le condizioni e, con la primavera, ci siamo presentati in Transilvania. Facciamo la strada, i ponti e l’ edilizia artistica, poichè di lavorare bene la pietra c’ intendiamo.
– Infatti in Oradea ci sono molti edifici costruiti dagli Italiani, disse pensoso il vescovo. Il comune di Olosig è stato fondato dagli Italiani venuti per eirgere gli edifici importanti della città di Oradea. In ungherese „olasz” significa “italiano”, spiegò.
– Noi siamo qui per la prima volta, ma ci piace, le persone sono ospitali, sono ospitali, c’ intendiamo facilmente con loro, molti di noi già parlano il romeno, rise De Niro.
Il vescovo ascoltava assorto, sapeva quant’ erano somiglianti la lingua italiana e quella romena. Gli faceva piacere sentire quell’ Italiano testimoniare, senza saperlo, dell’ origine comune dei due popoli.
– Andiamo, vediamo insieme cosa desidererei far costruire. Prima il luogo e poi le piante. Sai leggere i disegni, i piani?
– Certamente, ho lavorato per un certo periodo presso un geometra di Udine, ho imparato come si fa a costruire una volta, so quanto materiale serve per le mura, quanto dev’ essere consistente una fondazione.
Il giovane esagerava le sue conoscenze. Era vero ei avero lavorato a Udine per due inverni consecutivi, ma non aveva personalmente diretto nessun lavoro importante, ad eccezione di qualche strada. Ma era convinto di essere capace fare di tutto ciò che gli era richiesto, come se, nelle sue vene, col sangue italiano scorresse tutta l’ esperienza multimillennaria dei Romani, i migliori edili del mondo.
Il Palazzo Vescovile non era grande, era stato innalzato molto tempo prima, le finestre erano alte, strette ed austere, le tende, leggere e bianche, cadevano lievi, i mobili color fumo erano semplici, ma di buona qualità, i seggioloni avevano i bracci scolpiti e lo schienale dritto e scomodo, i tavoli apparivano pesanti e gli armadi massicci si allineavano mansueti lungo le pareti. Passarono per una sala che serviva da biblioteca, con le pareti ricoperte interamente da librerie, e De Niro si stupì del fatto che potessero esserci tanti libri messi insieme. Raggiunsero un corridoio lungo, luminoso, che dava sul giardino.
– Qui vorrei far erigere una cappella, non grande, ma bella, la voglio consacrare alla Vergine, dovrà essere altrettanto dilettevole di un sogno, mormorò con fierezza contenuta il prelato, nulla sarà troppo costoso – nei limiti delle nostre possibilità, aggiunse con prudenza – per glorificare la nostra Santa Chiesa.
Il posto era idoneo e De Niro si sentì emozionato, il cuore gli pulsava come un puledro scontroso, era un’ opportunità rara avere alla sua età una simile commissione.
Tornarono nel corridoio luminoso e il vescovo suonò un campanello, chiedendo al cameriere di portare i progetti che si trovavano nella camera da letto. Eseguita da un architetto italiano, i disegni raffiguravano una mirabile costruzione, come se ne trovano dappertutto nell’ Italia zeppa di talenti.
– Pensi di poter osare? Volle sapere il vescovo.
Il giovane De Niro si mise seduto per studiare attentamente le piante. Non aveva mai fatto una costruzione simile, ma non temeva di assumersi la responsabilità. In Germania, aveva lavorato a chiese molto più imponenti, vero era pure che non era stato lui a dirigere i lavori, ma era sempre stato attento alle tecniche usate. Era convinto di poter riuscire. Aveva bisogno di una squadra di prima mano. Gli occorrevano dei soldi per poter cominciare. Aveva sempre desiderato un lavoro come quello. Era deciso a non lasciarsi sfuggire l’ occasione. Disse, con più fermezza nella voce che non dentro di sè:
– Posso farla! Con l’ aiuto della Vergine faremo una costruzione degna della gloria della fede.
– Quando pensi di poter cominciare? s’ interessò il vescovo.
La fronte del giovane fu saleata da una rufa profonda. Ragionava frettolosamente e cercava di valutare correttamente quanto gli era richiesto.
– Fino in autunno sarò impegnato con l’ ingaggio attuale. Poi mi recherò in Italia, cercherò la squadra adatta ed assumerò gli uomini. Ho bisogno dei migliori costruttori edili. A febbraio tornerei per occuparmi dei materiali e per trovare i manovali con cui iniziare gli scavi. Devo indiriduare dove trovare la calce, il legno, i mattoni, e comperarli…
– Bene, torna per studiare i disegni e per farmi poi un preventivo, concluse il vescovo.
Il giovane De Niro s’ inchinò e baciò rispettosamente l’ anello dell’ prelato. Avrebbe baciato anche la terra, pur di poter acchiappare al volo quella commissione.
Il preventivo che sottopose al vescovo fu modesto, ma esauriente. De Niro sapeva che non sarebbe diventato ricco con quella prima opera realizzata. Era importante entrare a far parte del mondo dell’ edilizia, manifestarsi, divenire „qualcuno”. (…)

Fragment din romanul La cronaca della famiglia De Niro, Coleta De Sabate, Editura Excelsior Art, 2007

pentru varianta în limba română: http://www.excelsiorart.ro/carte/clanul-de-niro.html